IL SILENZIO DEI CARCERATI

 

È importante provare a restituire la parola alle “urla dal silenzio”. Se si vuol incontrare la realtà lontano da luoghi comuni occorre provare ad ascoltare le sofferenze più acute che attraversano la nostra umanità ferita.

In alcuni momenti, quando si passa davanti al carcere di Montorio, sembra che regni il silenzio. In realtà, quelle mura alte imprigionano voci e canti, e anche molte lacrime. Perché in carcere il silenzio è forse impossibile. E se qualcuno, magari, lo cerca dentro di sé, riesce a strappare un “pezzettino di silenzio” solo con grande fatica. C’è però l’altro silenzio. Quello assordante di una società che rimuove quel luogo, che non lo vuole vedere, sentire.

Il difficile silenzio delle carceri dovrebbe interrogarci rispetto al troppo facile silenzio sulle carceri. È il silenzio dell’oblio, della dimenticanza: una parte di società “perfetta” che non vuole vedere gli “imperfetti”, che non vuole distinguere l’errore dall’errante, che non prova compassione per donne e uomini a cui nega perfino il diritto di ricominciare. Se ne parla sui giornali, troppo spesso solo per notiziare di un atto estremo tra i carcerati, ma anche tra la polizia penitenziaria, persone braccate dalla disperazione della solitudine. Una società giusta dovrebbe invece non solo garantire luoghi di pena/detenzione più umani, ma anche inventarne di alternativi che possano valorizzare le persone, ne colgano e promuovano le peculiarità per favorire un’autentica integrazione. Non più oggetti, ma soggetti, protagonisti anche loro di una società che sa trovare per tutti un posto dove sia possibile rinascere.

Mons. Domenico Pompili

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